HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Seconda

Amore e morte nel giardino degli dei

 

Dal freddo di Grand Rapids nel Michigan, Jake VanDorn, discende verso il caldo della California. Già in questo percorso entra la dimensione della discesa così come quella del “caldo infernale”. Hardcore, però, non è un film costruito sulla facile e sterile contrapposizione tra paese e città, e neanche un film che cerca di mettere in positivo la dimensione della micro-comunità del Nord contro la macro-comunità del Sud. Entrambe le collettività appaiono problematiche, affette da disequilibrio, piene di sfumature e asimmetrie. Sin dai titoli di testa – che scorrono sulle immagini del Michigan innevato – i codici cinematografici secondari assumono un ruolo determinante nell’economia del film: il nome dell’attore protagonista e il titolo del film appaiono neri per essere subito dopo virati di rosso carminio; quelli successivi proseguono su questa tonalità con l’evidente intenzione di sottolineare in modo extra filmico la dimensione “infernale” al centro della pellicola.

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Le immagini candide e asettiche di Grand Rapids innevata con i bambini che giocano felicemente e armoniosamente, stridono fortemente con i tre stacchi a camera fissa che al termine dei titoli di testa ci introducono nell’abitazione di Jake VanDorn, all’interno della quale tutto è sobrio, grigio e compassato. Anche qui ci sono bambini: alcuni suonano il pianoforte e cantano inni religiosi, altri sono seduti di fronte ad un innocuo spettacolo televisivo e natalizio – prima che uno zio intervenga a spegnere la televisione demonizzandola – altri, come il piccolo Hardold Jay, assistono attoniti e spaesati alle discussioni sul peccato capitale e sui salmi, cui sono ipegnati i genitori.
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HARDCORE (1979) di Paul Schrader – Parte Prima

L’infernale paradiso di …Kristen

 

Paul Schrader ha più volte dichiarato di aver fatto i conti con il suo passato e sublimato il rapporto con il padre anagrafico con il film Hardcore (1979). A ben vedere però, il film in questione, non è solo un viaggio autobiografico alla ricerca della propria identità (negata dalla famiglia), ma è anche un ritratto caustico, bruciante e irriverente di un microcosmo religioso (che in America conta per lo 0,1% della popolazione ma che ha dato al paese ben due presidenti: Martin Van Buren e Theodore Roosevelt), quello della declinazione calvinista della Chiesa Riformata d’Olanda. Il viaggio all’ “inferno” di Jake VanDorn, non è solo la discesa negli antri oscuri dell’essere umano di un padre alla ricerca disperata della figlia, ma è la traversata destinata a qualunque comunità che ponga alla base del suo Credo (religioso e non) la repressione aprioristica e la mancanza assoluta di spiegazioni comportamentali (come sarà, anni dopo, per quella di Das Weisse Band (Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke). La stessa, traversata, vissuta sulla propria pelle dal regista fino al compimento dei 17 anni, momento in cui varca contemporaneamente la soglia della sala oscura e quella della libertà e del suo “mistero”.

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L’incipit in voce-off del film del 1990 The comfort of strangers (Cortesie per gli ospiti) racconta di un passato e di un padre, in cui non si può non vedere i tratti autobiografici alla luce anche del taglio del protagonista di Hardcore e delle sua “trasformazione caricaturale” californiana (l’uomo di cui si parla, sembra quello chiuso nel Motel del Cinema intento a ricevere aspiranti porno-attori in Hardcore): “Mio padre era un uomo imponente. Tutta la vita ha portato dei gran baffi neri. Quando ingrigivano li tingeva di nero con uno spazzolino di quelli che usano le donne per truccarsi gli occhi, per darsi il mascara. Avevano tutti paura di lui: mia madre, le mie quattro sorelle. Quando eravamo a tavola nessuno poteva parlare a mio padre se non veniva prima interpellato da lui. Ma adorava me. Io ero il suo preferito”. La scelta della caricatura per tratteggiare visivamente un uomo “fuori posto” come è Jake VanDorn in California, evidentemente coincide con la necessità, per l’autore, di raccontare una storia privata annegandola nei meandri più oscuri e inconfessabili della sua giovinezza, all’interno della quale la pornografia ha avuto un ruolo fondamentale nel processo di “redenzione” auto-percorso dallo stesso Schrader. Il Jake VanDorn di Grand Rapids (Michigan) non è diverso dal Jake VanDorn esule a Los Angeles, San Diego, San Francisco: quello che cambia è il suo abito, il suo atteggiamento; così, almeno, crede lui, mentre invece è egli stesso a subire una trasmutazione irreversibile, al punto da chiudere il suo viaggio con questa battuta rivolta alla figlia ritrovata: “Adesso portami a casa tu”.

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FEMMES DE SADE di Alex De Renzy (1976)

Il carnevale infinito della società liberata

 

Il cinema di Alex De Renzy è un inno alla libertà. Il regista della west-coast costruisce film dopo film un mondo irreale, onirico, fantasmagorico, in cui tutto è possibile e in cui anche i lati più biechi e oscuri della natura umana diventano accettabili e giustificati. Definito a suo tempo dal New York Times come “Il Cecille B. De Mille dell’hardcore”, il regista di San Francisco, sin dal suo esordio affronta il lato perverso e “contronatura” della sessualità: in Animal Lover (id., 1971) attraverso uno pseudo-documentario delirante e irriverente cerca di dare spiegazione logica e “naturale” alla zoofilia, mentre il film che chiude il suo periodo più artistico e fecondo Long Jeanne Silver (id., 1977) ha come protagonista una bionda con una gamba amputata che usa il moncherino per regalare piacere sessuale ai suoi partners. Alex De Renzy, è un ottimo regista uno dei pochi nel genere in grado di sostenere con successo anche la regia di film “normali” (e non è casuale che nei suoi film l’hard abbia, in proporzione, sempre uno spazio ridotto rispetto alla narrazione), e uno dei pochi ad ottenere una recitazione misurata e credibile dai suoi performers. Aspetti questi che elevano il suo cinema, la cui cifra stilistica è quella del bizzarro spesa all’interno di una idea di società impossibile ma che prende forma e consistenza proprio grazie a quella “macchina dei sogni” che è il cinema. Nel suo cinema è negato il lato oscuro e problematico del sesso (in questo è l’esatto contraltare di Gerard Damiano), ma è presente solo una visione libertaria, ridanciana e carnevalesca dell’accoppiamento corporeo in ogni forma e declinazione indipendentemente dal genere e dalla quantità, e ogni violazione di questa regola deve essere sanzionata. Nel programmatico Femmes de Sade, le violenze perpetrate dal villain di turno vengono irrimediabilmente punite dalla società stessa in cui egli si è introdotto come un corpo estraneo violandone le regole e profanandone la “sacra” libertà, mediante un rito/orgia collettivo che si conclude con deiezioni di gruppo sul corpo del malcapitato lasciato a terra esanime e ricoperto di escrementi mentre una società colorata, multiforme e godereccia si allontana da lui facendo il trenino e cantando beffardamente “Bye Bye Rocky”.

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LASSE BRAUN’S “SENSATIONS” (1974)

Sexual Revolution…

“I believe pornography is at the center of the biggest cultural revolution of our century”.Parola di Lasse Braun, ovvero l’italianissimo Alberto Ferro, colui che la rivista newyorkese “Escapade”, nel 1981, ha definito come “ il padre della pornografia moderna”. Come sempre nelle etichette c’è un misto di esaltazione e approssimazione; certo è pero, che, indiscutibilmente, Lasse Braun è stato un pioniere “di qualità” nel campo, un abile “politico” e, a suo modo, anche un rivoluzionario. Alberto Ferro nasce ad Algeri nel 1936, figlio di un diplomatico italiano e proveniente da una ricca e nobile famiglia italiana. Sin da piccolo, per lignaggio, è destinato a seguire le orme del padre, ma è anche, irresistibilmente attratto dalla sessualità. Egli racconta con una certa enfasi ed esagerazione: “La prima scopata fu nell’aprile del 1944, con Wilma, quando nel parco della villa di mio zio, sul lago di Como, si tenne il party per il mio ottavo compleanno. Anche se a spiegarmi tutto sul sesso fu Joe, un soldato nero USA che arrivò a Cernobbio nel ’45. Lo vidi montare mia cugina e poi mi spiegò tutto, svelandomi i misteri del sesso arrivando persino a disegnarmi in terra, con un rametto, quello che succede tra uomini e donne” (intervista a Lasse Braun, in booksblog.it, 8 marzo 2010). Lasse Braun dal 1956 al 1961 è iscritto all’Università Statale di Milano, dove si laurea in Giurisprudenza, e presenta come tesi un lavoro dal titolo “Censura giudiziaria nel mondo occidentale”, che negli anni dell’oscurantismo sessuofobo della DC, viene rifiutata e provoca sdegno nel mondo accademico. Il giovane Braun, inizia così un percorso anti-istituzionale finalizzato ad abbattere la sessuofobia imperante e a smascherare l’ipocrisia repressiva del potere.

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BEHIND THE GREEN DOOR (1972) dei Mitchell Bros.

Dietro la porta verde, il mito, il sogno e la disillusione

Behind the green door, è stato il primo lungometraggio hard-core ampiamente distribuito negli Stati Uniti. Il film è l’adattamento di un anonimo racconto omonimo, ispirato ad una leggenda metropolitana, che prende il titolo da “The Green door”, hit del 1956, e che all’epoca venne distribuito attraverso numerose copie carbone. Insieme a Deep Throat (Gola Profonda, 1972), quello dei Mitchell Bros., è il film che ha aperto la “Golden Age of Porn”, cioè quel breve periodo in cui la pornografia è stata fenomeno di massa intergenerazionale e interclasse. Uscito nelle sale americane il 17 dicembre 1972, girato con un budget di $60.000, Behind the green door ha incassato (compresa la distribuzione home-video) oltre 25 milioni di dollari, e negli anni ’70, con il dittico di Damiano Deep Throat e The devil in Miss Jones (id, 1972), è stato uno dei maggiori incassi di tutto il cinema americano. Nel maggio del 1973 è stato proiettato e applaudito al Festival di Cannes. La sua protagonista, divenuta star in seguito al clamoroso successo del film, non è una pornodiva. Marilyn Chambers, all’epoca è la testimonial pubblicitaria di un sapone per bambini Ivory Snow,  venduto con lo slogan: “99 e 44/100 %’ s pure”. I Mitchell Brothers, venuto a sapere di questa sua partecipazione, distribuiscono comunicati stampa in cui il film viene pubblicizzato con lo stesso slogan. L’indignazione dell’industria pubblicitaria, dopo l’uscita del film, è così profonda che la Procter & Gamble, titolare del marchio Ivory Snow decide di ritirare dal mercato tutte le confezioni dei prodotti su cui compare il volto di Marilyn Chambers. Tutta pubblicità gratuita per il film, il cui eco attraversa l’America da costa a costa e giunge persino sugli schermi televisivi dove la vicenda viene schernita con sketch e imitazioni varie, e apre lo stucchevole dibattito se la Chambers, abbia avuto o solo simulato l’orgasmo sul set.

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